Senecio inaequidens DC.

Introduzione e diffusione in Europa

Il senecione o senecio sudafricano (Senecio inaequidens DC.) è una specie erbacea perenne, appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Originaria del Sudafrica è giunta in Europa accidentalmente verso la metà del XX secolo, probabilmente sotto forma di seme in partite di lana grezza.

Il suo arrivo e la successiva rapida diffusione nell’Europa centrale sono ben documentati: dopo il primo ritrovamento, risalente al 1889 e riguardante l’area di Hannover in Germania, la pianta è stata segnalata nella prima metà del ‘900 in Belgio, Gran Bretagna, Francia, Olanda e Italia, solitamente in località connesse con processi industriali di lavorazione della lana. In tempi più recenti la sua capacità di diffusione è andata aumentando fino a renderla presente in buona parte dei Paesi europei.

Euro+Med – gennaio 2021

In Italia è stato ritrovato per la prima volta nel 1947, nel veronese, dove tutt’ora risulta abbondante (Anzalone 1976). Nel 1982 Pignatti (1982) lo indicava per le sole regioni centro-settentrionali della penisola, ma già nel 2005 era noto in tutte le regioni italiane con l’esclusione di Puglia e Calabria (Conti et al. 2005). Oggi risulta presente su tutto il territorio nazionale (Portale della Flora d’Italia 2021).

Da Portale Flora d’Italia – gennaio 2021

Morfologia

Il senecio sudafricano può vivere tra i 5 e 10 anni. Ogni singola pianta produce numerosi fusti, legnosi e prostrati alla base, eretti, ramificati e di consistenza erbacea più in alto, che possono raggiungere e spesso superare i 60 cm d’altezza (non è raro incontrare individui di un metro). Le foglie, sessili e abbraccianti, sono acuminate, strette e allungate (2-4 mm di larghezza e 6-7 cm di lunghezza), con bordo irregolarmente dentato (da cui l’epiteto specifico “inaequidens”). I capolini sono terminali, di diametro compreso tra 1,5 e 2,5 cm e di colore giallo. In base a quanto riportato in letteratura, ogni pianta può arrivare a portare circa 80-100 capolini, tuttavia nella nostra esperienza abbiamo riscontrato anche oltre 600 capolini su una singola pianta. La fioritura del senecio è molto vistosa ed estremamente prolungata, protraendosi da aprile fino a dicembre-gennaio.

Un singolo individuo produce in media circa 10.000 frutti (acheni) ma può arrivare a produrne fino a 30.000. Ogni achenio misura circa 2 mm, è estremamente leggero e dotato di un pappo piumoso che ne facilita la dispersione anemofila. È in grado di produrre semi già dal primo anno di vita. Riguardo alla vitalità dei semi non c’è molta chiarezza in letteratura: contrariamente alle opinioni espresse su alcuni report ufficiali (NOBANIS 2006; EPPO 2004) in cui si ipotizza una persistenza della seed bank nel suolo per 30-40 anni, indagini più recenti evidenziano che il 25% dei semi sepolti rimangono vitali dopo un anno, ma i semi sulla superficie del terreno perdono vitalità dopo 6 mesi (López-García & Maillet 2005; USDA 2005; EPPO 2006; Curtaz et al. 2011). Riesce a moltiplicarsi anche per via vegetativa attraverso l’emissione di radici dai fusti che toccano terra.

L’impollinazione è entomofila e i fiori sono visitati da numerosi insetti generalisti tra cui principalmente ditteri, lepidotteri e imenotteri.

Ecologia

Si tratta di una specie estremamente rustica e adattabile, capace di occupare e diffondersi rapidamente in numerosi ambienti anche molto diversi. L’ampia tolleranza ecologica e la capacità di crescita estremamente rapida gli consentono di insediarsi nelle aree di pianura come alle quote più elevate: in Val d’Aosta sono state rilevate piante oltre i 1700 m di quota, in Lombardia (Bresciano) fino a 1500 m mentre nel suo areale di origine si spinge fino a 2850 m. Colonizza sia zone umide sia ambienti secchi, tanto su suoli acidi quanto su quelli basici (pur preferendo tendenzialmente i substrati calcarei). Generalmente predilige gli ambienti disturbati insediandosi di preferenza in aree antropizzate come campi, pascoli, vigneti, ambienti ruderali (macerie, aree abbandonate, base dei muri ed edifici). Le vie di comunicazione come strade, sentieri, ferrovie e scarpate stradali rappresentano senza dubbio un ambiente d’elezione per il senecio i cui semi riescono a sfruttare i fenomeni di turbolenza dovuti al passaggio degli automezzi. Spesso si ritrova in aree più naturali come incolti sassosi, rupi e greti dei fiumi. Talvolta anche in prati più o meno radi o in giovani arbusteti, mai in boschi più o meno densi e ombrosi.

La produzione di un elevatissimo numero di semi rappresenta un chiaro punto di forza che contribuisce a rendere questa specie più competitiva di altre nel colonizzare nuovi ambienti. Il principale vettore per la sua diffusione è il vento: i semi, provvisti di pappo, possono essere facilmente trasportati anche su lunghe distanze (EPPO 2006). Monty et al. (2008) stabiliscono in 100 m la distanza entro cui viene depositato il 99.8% dei semi, con un picco massimo intorno ai 5,2 m. Tuttavia, questa sperimentazione si basa su velocità del vento relativamente modesta (5 m/sec) e bassa turbolenza e gli stessi autori ammettono che in condizioni ambientali diverse (soprattutto con forti raffiche di vento), le distanze possono essere sensibilmente diverse. Anche gli animali, soprattutto con pelliccia, possono fungere da vettori nel trasferimento dei semi. La sua diffusione inoltre è favorita dal passaggio di automezzi e treni che dislocano i semi lungo le direttrici principali. Infine, può spostarsi accidentalmente attraverso la movimentazione di terra, materiali da costruzione o macchinari agricoli.

Recenti indagini hanno dimostrato che le popolazioni presenti nell’area nativa sono sia diploidi che tetraploidi, mentre quelle presenti in Europa appartengono solamente al citotipo tetraploide (Monty et al. 2010). La resistenza al freddo varia molto a seconda del citotipo: la sopravvivenza all’inverno è praticamente nulla per gli individui diploidi, bassa per i tetraploidi nativi ed è più elevata nei tetraploidi presenti nei territori invasi. Secondo vari Autori sembra quindi che in Europa si sia avuta una leggera divergenza rispetto alle popolazioni del Sud Africa che ha portato ad un maggiore adattamento verso la resistenza al secco e al freddo, fino alla diversificazione, in alcune aree, di due fasi fenologiche con due periodi di fioritura (tarda primavera e inverno) e quindi con la possibilità di due produzioni di semi per anno (USDA 2005).

Impatti

L’azione di disturbo di Senecio inaequidens nei confronti di singole specie non è ancora ben documentata e, nonostante in letteratura si trovino opinioni contrastanti, è evidente che una sottrazione di spazio nei confronti di entità endemiche o con areale contenuto può rappresentare un serio problema. L’elevata competitività e l’ingente tasso riproduttivo ne fanno invece una evidente minaccia per diverse comunità vegetali. Dal punto di vista ecologico è indiscutibile che la vistosa e prolungata fioritura (protratta anche per 8-9 mesi all’anno che comprende anche i mesi invernali) costituisca una rilevante alterazione del paesaggio naturale. Inoltre va osservato che recenti studi evidenziano in Senecio inaequidens uno degli invasori in Europa con più rapida capacità di colonizzazione di nuovi ambienti.

La sua elevata plasticità fenotipica suggerisce un notevole potenziale bio-ecologico non ancora sfruttato, che potrebbe determinare la migrazione verso nuove zone climatiche e il possibile adattamento a situazioni al momento ritenute sfavorevoli (Monty & Mahy, 2009; Monty et al. 2013); quindi una specie che potrebbe avvantaggiarsi dai potenziali scenari di cambiamento climatico.

Sotto l’aspetto economico il senecio africano apporta danni diretti come specie infestante dei coltivi e dei pascoli contribuendo a ridurne il valore commerciale. Reinhardt et al. (2003), pur ammettendo la difficoltà di quantificarne il valore monetario, evidenziano anche danni indiretti dovuti alla necessità di sostenere costi per la manutenzione stradale.
Attualmente, l’aspetto di maggior rilievo riguarda comunque l’impatto sanitario.

Tossicità

La pericolosità del senecio sudafricano è principalmente legata alla presenza di alcaloidi pirrolizidinici (Pyrrolizidine Alkaloids, abbreviati in PAs), fitocomposti naturali che si differenziano in oltre 350 molecole – di cui circa la metà tossiche – e che possono provocare fenomeni di avvelenamento del bestiame e dell’uomo. Si stima che circa 6.000 specie di piante nel mondo possano contenere tali alcaloidi, che si concentrano principalmente in alcune famiglie di angiosperme: Boraginaceae, Asteraceae e Fabaceae (genere Crotalaria). In natura i PAs svolgono un ruolo importante in relazione ai meccanismi di difesa di piante e insetti. I fitofagi evitano le piante ad elevato tenore in PAs. Alcuni insetti, invece, se ne cibano e attraverso questi composti tossici si difendono dai loro antagonisti. Altri insetti, come le falene ad esempio, trasformano i PAs in feromoni che hanno un ruolo fondamentale nell’accoppiamento (Kast et al. 2010).

Molecola di senecionina/retrorsina
(R=H per Senecionina, R=OH per Retrorsina)

Nelle Asteraceae gli alcaloidi sono principalmente sintetizzati nelle radici, distribuiti lungo le fibre in tutta la pianta. Dalla pianta possono facilmente passare ad animali e uomo attraverso varie modalità. Il contenuto di PAs negli alimenti e nei mangimi dipende da numerosi fattori, compresi specie e organo della pianta, raccolta, conservazione e procedure di estrazione.

Retrorsina e Senecionina sono due dei principali PAs contenuti in Senecio inaequidens. Sono tra gli alcaloidi pirrolizidinici maggiormente tossici esistenti in natura e sono sufficienti tra i 30 e i 50 milligrammi per ogni kg di peso corporeo per accusare sintomi gravissimi o addirittura mortali (Tabella 1).

ALCALOIDI PIRROLIZIDINICILD50 (mg/kg)RELATIVE PIANTE PRODUTTRICI
Retrorsina36Senecio cineraria, S. erucifolius, S. inaequidens, S. jacobaea, S. vulgaris
Senecionina50Petasites hybridus, Senecio cineraria, S. erraticus, S. erucifolius, S. inaequidens, S. jacobaea, S. nemorensis, S. petasitis, S. squalidus, S. subalpinus, S. viscosus, S. vulgaris, Tussilago farfara
Eliotrina296Heliotropium curassavicum, H. europaeum, H. supinum
Licopsamina>1000Anchusa officinalis, Borago officinalis, Symphytum asperum, S. officinale
LD50=Dose letale (Lethal Dose 50), ossia dose in grado di uccidere il 50% di una popolazione campione di cavie; è un modo per testare il potenziale tossico di una sostanza a breve termine (tossicità acuta) (Gallina 2014).

Il problema della presenza negli alimenti e nei mangimi, degli alcaloidi pirrolizidinici ha sollevato di recente una forte preoccupazione anche a livello Comunitario, tanto che l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha pubblicato un parere scientifico su questa tematica. Gli esperti scientifici del Gruppo sui Contaminanti nella Catena Alimentare (CONTAM) hanno individuato la presenza negli alimenti e nei mangimi di un certo numero di PAs, importanti in quanto potenziali contaminanti e hanno concluso che esiste una possibile preoccupazione sanitaria per alcuni forti consumatori di miele, il solo alimento per il quale fossero disponibili dati sui livelli di PAs. Inoltre hanno confermato che determinati alcaloidi pirrolizidinici possono agire sull’uomo da cancerogeni genotossici (EFSA 2011). In letteratura sono evidenziati numerosi casi di intossicazione, sia animale che umana, in diverse parti del mondo. Testimonianze di malatie epatiche causate sul bestiame dall’ingestione di erbe contenenti alcaloidi pirrolizidinici (Senecio jacobaea e genere Crotalaria) esistono già dai primi del ‘900 (Wiedenfield 2011b). Tra i casi più recenti, che hanno dato impulso a nuove indagini, è da menzionare invece la morte di numerose vacche nel 2004 in Sudafrica, intossicate a seguito dell’ingestione di Senecio inaequidens in un pascolo pesantemente invaso (Dimande et al., 2007). Anche le intossicazioni umane da alcaloidi sono descritte già nei primi decenni del ‘900: risale al 1920 l’intossicazione in Sudafrica causata dal consumo di pane con semi contaminati da specie del genere Senecio. I casi più gravi di intossicazione si sono rilevati in Afghanistan e Tagikistan: nel 1975-1976, 8000 persone sono rimaste intossicate dal consumo di cereali contaminati da Heliotropium popovii subsp. gillianum e, similmente, 4000 persone sono stati ricoverate nel 1992 a causa di grano inquinato dalla presenza di Heliotropium lasiocarpum (10-12). Sempre H. lasiocarpum è responsabile di un episodio di intossicazione avvenuto alla fine del 1940 nell’ex Unione Sovietica, sempre a carico di pane contaminato (Wiedenfield 2011b).

Gli attuali metodi per analizzare il contenuto di PAs in alimenti e mangimi si basano essenzialmente su gascromatografia-spettrometria di massa (GC-MS) e su cromatografia liquida-spettrometria di massa tandem (LC-MS/MS). In Italia solo poche ditte altamente specializzate sono in grado di effettuare analisi per il rilevamento dei PAs all’interno degli alimenti.

Tossicità per gli animali

Il bestiame può ingerire il senecio al pascolo o con il fieno fornito nella razione. Gli animali al pascolo tendono a scartare la pianta, a causa del suo gusto amaro, che però scompare con l’affienamento, aumentando il rischio di ingestione del senecio nel fieno. Poiché l’essiccazione non elimina la tossicità del senecio, ingerendo la pianta l’animale accumula la tossina nel proprio organismo. Gli alcaloidi pirrolizidinici vengono assorbiti nel tratto gastrointestinale e agiscono principalmente nel fegato, dove liberano molecole tossiche che si accumulano e danneggiano progressivamente l’organo interessando, a volte, anche il cuore e i polmoni. Non esiste, attualmente, un trattamento per contrastare l’avvelenamento da PAs. I sintomi da avvelenamento sono difficilmente identificabili, anche perché, trattandosi generalmente di tossicità cronica, può manifestarsi diversi mesi dopo l’ingestione. Il bestiame avvelenato può presentare sintomi quali inappetenza, perdita di peso, diarrea, problemi neurologici, letargia ecc. Il livello di tossicità del senecio sudafricano per il bestiame può variare in relazione alla specie, all’età, al sesso e allo stato fisiologico e nutrizionale degli animali. La bibliografia sull’argomento analizza principalmente il problema dell’avvelenamento dei cavalli, più sensibili all’intossicazione da Senecio inaequidens, anche perché spesso pascolano in aree marginali, dove il senecio trova condizioni ottimali per la propria diffusione. In realtà, anche le parcelle destinate alla produzione di fieno, se invase da Senecio inaequidens, possono rappresentare una via di avvelenamento non trascurabile. La dose letale nei cavalli si raggiunge con un’ingestione di circa 300 g al giorno di pianta (espressa come sostanza secca) per un periodo di 50 giorni. Questo valore corrisponde al 3-5% del peso vivo dell’animale. Oltre ai cavalli è segnalata un’alta sensibilità anche per bovini, suini e galline. In generale, invece, ovicaprini, tacchini e ungulati selvatici (cervi) sembrano essere più tolleranti. Le capre e le pecore al pascolo a inizio primavera si nutrono delle rosette fogliari e raramente manifestano problemi. In diversi studi, la resistenza delle pecore all’intossicazione da alcaloidi è attribuita all’attività batterica del rumine, che consentirebbe la degradazione della molecola. Gli animali giovani sono più sensibili degli individui adulti. L’ingestione di elevate quantità di senecio in un breve tempo provoca un’intossicazione più rapida che l’assunzione di quantità inferiori per un tempo più lungo.

Tossicità per l’uomo

L’uomo può essere intossicato dagli alcaloidi del senecio sudafricano per imperizia nella raccolta di specie selvatiche per la produzione di rimedi naturali o per consumo alimentare di piante selvatiche. Tralasciando queste vie dirette d’intossicazione, l’uomo può entrare in contatto con gli alcaloidi pirrolizidinici, mediante il consumo di latte, miele, uova, carne e integratori alimentari di origine vegetale, prodotti da animali intossicati. Trattandosi spesso di specie vegetali gradite alle api, tracce di PAs possono ritrovarsi anche all’interno del miele. Gli effetti sull’uomo riguardano principalmente il fegato, con occlusione delle vene epatiche, emorragie necrotiche, sviluppo di fibrosi o cirrosi, a seconda che si tratti di tossicità acuta, sub-acuta o cronica. La sensibilità è maggiore nei soggetti più giovani e negli individui di sesso maschile.

Tra gli alimenti che possono contenere PAs in tracce, il miele è stato senza dubbio uno di quelli più studiati negli ultimi anni (Gallina, 2014).

Attualmente nell’Unione Europea non vigono valori limite per i PAs negli alimenti. Numerosi Paesi, tuttavia, stanno discutendo sulla opportunità di fissare una concentrazione massima consentita per la commercializzazione dei prodotti alimentari.

In alcuni casi si applicano già limiti massimi per l’assunzione di farmaci vegetali che contengono PAs. In Germania dal 1992 esiste un’ordinanza federale che regolamenta la vendita di prodotti medicinali a base di piante produttrici di AP con le seguenti dosi ammesse (Gallina, 2014):

  • 1 µg al giorno per un periodo massimo di assunzione orale di 6 settimane;
  • 100 µg al giorno per uso esterno e per un periodo massimo di 6 settimane; 
  • 0.1 µg al giorno per più di 6 settimane consecutive di assunzione orale;
  • 10 µg al giorno per uso esterno, per un massimo di 6 settimane consecutive;

Il Ministero della Sanità Pubblica tedesco raccomanda di non superare la dose di 0.007 μg PAs/kg peso corporeo al giorno (correspondente a 0.42 μg PAs al giorno per una persona di 60 kg).

In Austria è ammessa la vendita di poche piante o preparati a base di piante produttrici di PAs. Tuttavia tali prodotti possono essere commercializzati solo previa analisi “condotta con le più recenti metodiche per l’analisi di PAs disponibili in letteratura”, e attestante la totale assenza di PAs nel prodotto.

In Olanda il contenuto totale di PAs e di PAs N-OX prodotti medicinali non può superare 1µg/kg o 1µg/l; per non incorrere in effetti cancerogeni ha stabilito un ADI (Acceptable Daily Intake) di 0,1µg/kg di peso corporeo al giorno (Gallina 2014).

Secondo Swissmedic i PAs tossici presenti nei farmaci vegetali devono essere dichiarati e il loro dosaggio deve essere tale da non superare l’assunzione giornaliera di 0,1 µg.

Se le direttive relative ai farmaci vegetali si applicassero agli alimenti, al miele ad esempio, supponendo che questo prodotto venga consumato in porzioni da 20 g al giorno, risulterebbe una concentrazione massima consentita compresa tra 5 e 50 µg di PAs per chilo di miele (Kastl et al. 2010).

A titolo di esempio, nel miele uniflorale di Echium vulgare (erba viperina comune) sono state riscontrate concentrazioni di PAs fino a 3.900 µg/kg (Kastl et al. 2010). Contenuto del tutto simile di PAs è stato riscontrato nel miele di Senecio jacobea (Edgar et al. 2002).

Uno studio tedesco ha analizzato oltre 200 campioni di miele distribuito nei supermercati di tutto il mondo. Nel 9% di essi è stato possibile riscontrare concentrazioni di PA comprese tra 19 e 120 µg /kg. Molti dei campioni positivi contenevano polline di Echium vulgare. Dübecke et al. (2011) hanno rilevato PAs in 696 campioni di miele da supermercato. Nel 94 per cento dei casi il tenore in PAs andava da 1 µg/kg a 267 µg/kg. Nell’88 per cento dei campioni analizzati i tenori in PAs erano inferiori a 50 µg/kg. Soltanto il 12% per cento dei campioni conteneva più di 50 µg/kg di PA.

Un recente lavoro di Martinello et al. (2014) ha preso in esame 70 campioni di miele in commercio nei supermercati italiani e provenienti da varie parti del mondo. Nel 64% dei casi sono stati riscontrati PAs, con concentrazioni più elevate per Lycopsamine, Intermedine, Echimidine, e Senecionine (Figura 9). La concentrazione media di PAs è risultata la seguente: 1,35 µg/kg nei mieli italiani, 3,14 µg/kg in quelli provenienti dall’UE e 17,45 µg/kg in quelli misti tra quelli europei e extracomunitari. I campioni più contaminati contenevano una concentrazione variabile tra 40 e 172 µg/kg. Il più contaminato ha raggiunto il valore di 243 µg/kg (Martinello et al. 2014).

Bibliografia tematica

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